
Internet e le Aziende: di chi è colpa la crisi?
Questo è il mio diciannovesimo anno di lavoro sul web. C’è chi mi prende in giro chiedendomi se c’ero già ai tempi di Arpanet (simpatici). In effetti c’ero già, su Internet, prima che nascesse Google, prima di Facebook, di YouTube, prima dell’Adsl e (figuratevi!) della fibra ottica. Il mio primo modem andava a 14.4 Kilobit al secondo (14milaquattrocento). Oggi si arriva a 100 Megabit al secondo (100milioni)! Insomma: in questi diciannove anni ne ho viste di tutti i colori.
Quello di cui voglio parlare oggi è una cosa che mi capitava spesso quando proponevo alle aziende i miei servizi di realizzazione di siti internet e di strategie di web marketing.
A chi non c’era, o non ne ha memoria, ricordo che all’epoca non si parlava minimamente di piattaforme open source per la realizzazione dei siti e, per realizzarne uno, occorreva aprire una pagina bianca e cominciare a scrivere codice HTML, da zero, per ciascun elemento della pagina, intabellando immagini e testi, scrivendo a mano il software che permetteva di collegare i contenuti del sito ad un database che permettesse di gestire comodamente l’inserimento di prodotti, di articoli, di news, ecc. ecc.
Ovviamente questo lavoro sartoriale era lungo e aveva un costo piuttosto alto, confrontato con i sistemi attuali, anche per le aziende medio-piccole. Questa premessa è necessaria per il prosieguo del discorso.
Ricordo infatti le difficoltà nel convincere una piccola azienda a spendere svariati milioni di lire (ah, già: non c’era neppure l’Euro) per garantirsi una presenza decorosa sul web, con un semplice sito istituzionale, per non parlare dei siti e-commerce. Per quanto fossi convinto di quel che facevo, comprendevo le perplessità degli interlocutori quando mi dicevano che, secondo loro, Internet non sarebbe durato, che era una moda passeggera. Oggi questa previsione fa ridere, ma allora non si sapeva, o, meglio, non tutti erano tenuti a sapere dell’esistenza e delle potenzialità del World Wide Web.
Qualche anno dopo, però, Internet cominciava a prendere piede e diventava più difficile ignorarlo. Molte aziende, all’inizio scettiche, si convincevano della necessità di una presenza sul nuovo mezzo. Altre no. E sono queste le aziende oggetto del raccontino di oggi.
Molte, a causa di quella cecità (all’inizio, come dicevo, giustificata, ma poi molto meno), si sono trovate negli anni a non poter contare su una presenza storica sul web che avrebbe garantito loro, con un po’ di attenzione e non troppa fatica, una buona posizione sui motori di ricerca, una presenza on line ottimale e un flusso costante di richieste di prodotti e servizi da parte di nuovi potenziali clienti in sostituzione di quelli che, magari proprio a seguito di ricerche su Internet, migravano verso la concorrenza.
Probabilmente non mi crederete, ma nei molti appuntamenti presi fino ad una decina di anni fa, trovavo spesso (spesso!) titolari di aziende che rifiutavano la presenza on line perché (giuro) “avevano già troppo lavoro“. Avete capito bene. Se nel 1996 molti pensavano che Internet “non servisse a nulla“, dieci anni dopo c’era chi aveva paura servisse “troppo“.
Oggi c’è la crisi (speriamo ancora per poco, ma c’è) che ha fatto molti danni anche a persone e aziende senza grandi colpe, ma i titolari di alcune delle aziende che hanno chiuso in questi ultimi tre o quattro anni hanno il dovere di domandarsi se la gestione della loro attività sia stata corretta e lungimirante. Una volta poteva forse bastare il lavoro di buona qualità per vivere bene (e poi per sopravvivere), ma oggi non più. Chi ha visto lungo ha capito in anticipo che presto non sarebbe stato più sufficiente adagiarsi su allori del passato, che i clienti, anche i più affezionati, un giorno se ne sarebbero andati verso aziende che prima non avrebbero potuto raggiungere facilmente, ma che ora si trovavano a distanza di un clic.
Le lamentele che sento quotidianamente sugli effetti della crisi – ripeto – sono spesso fondate, ma mi permetto di asserire che in molti casi si sarebbe potuto fare di più per non trovarsi in queste situazioni. Naturalmente questo non ha a che fare con me in particolare. Cioè: probabilmente non avrei potuto IO salvare queste aziende e non dico che avrebbero dovuto ascoltare ME. Ma avrebbero dovuto ascoltare il mondo, senza chiudersi dentro a capannoni mentali dalle spesse saracinesche. Le porte chiuse non permettono ai ladri di entrare, ma neppure alle idee. E bloccano la visione di quello che c’è fuori.
Il mondo cambia continuamente. Nessuno, ormai, crede più che il proprio orticello sia l’unico panorama da osservare. Eppure molti ancora rifiutano il confronto, la condivisione, l’apertura verso l’esterno. Oggi esistono i blog e i social network dove ciascuno ha la possibilità di esprimere e condividere quello che sa, ed è solo così che altri verranno a sapere di voi, di noi, di quanto siamo bravi a fare il nostro lavoro, di quanto potremmo essere utili con i nostri prodotti e servizi, che conosciamo, produciamo e vendiamo da tanti anni, ma che senza queste aperture metaforiche e culturali rimarrebbero chiusi nei nostri concretissimi scaffali.
Uscire dalla crisi non significa aspettare che un governo ci faccia pagare meno tasse (quanto potrebbe abbassarle? Siamo realisti: due per cento? Cinque? E questo risolverebbe tutti i nostri guai?). No, il problema non sono le tasse. Non è una generica crisi. Siamo noi. È la nostra pervicacia nel rimanere ancorati al passato. È la nostra inerzia, rimasuglio delle fortissime spinte ricevute (per merito, quando eravamo bravi!) molti anni fa, e che ora stanno esaurendo – hanno esaurito! – la forza propulsiva. Il problema è la nostra immobilità.
Ed è un peccato. Perché saremmo in grado di dominare il mondo, se non ci fermassimo continuamente a lamentarci e piagnucolare…
Avete storie da raccontare su Internet e le Aziende?
Bell’articolo, complimenti.
Ciao
Francesco
Grazie Francesco.
Ciao.